sabato 15 settembre 2012

FRANCESCA RIZZUTO (Castrovillari - Italia)




L’egida della materia come emblema di me stessa

Il mio incontro con l’arte ebbe inizio qualche anno fa, in seguito ad un particolare episodio della mia vita…..
Da allora, il bisogno di esprimersi è diventato impetuoso, in una sorta di rivelazione ho compreso che quello sarebbe stato il mio cammino interiore, il mio strumento di ricerca.
Proprio di ricerca si tratta, non di un’arte fine a sé stessa, bensì di un’arte che trasmette un messaggio che viene da lontano. Ci sono trepidazioni, turbamenti, che non si possono esprimere efficacemente con le parole, è allora che avverto il bisogno di appartarmi nel “mio mondo”, a volte immaginato, a volte reale, per viverlo.

I miei periodi espressivi sono diversi tra loro, ma comunque attraversati da un “fil rouge”: la materia, la materia vera e propria, nel suo significato di  “elemento” e di “segno”. Uso materiali eterogenei, naturali ed artificiali, a volte poveri, a volte ricchi, a volte usurati dal tempo,  oppure nuovi, ma che in ogni caso si sono distaccati dalla loro forma statica oggettuale originaria, per poterne sfruttare appieno tutte le possibili opportunità di trasformazione. Il mio rapporto con la materia è incentrato sul bisogno fisico di manipolarla, di plasmarla, quasi a conferirle un’anima che prima non possedeva. Perché la materia è una forza oscura, ma dotata di molteplici attitudini, che si prestano ad attualizzare altrettante oscure intuizioni.
La materia è anche veicolo di un ricco simbolismo carico di significati: il mio gesto preliminare parte dalla scelta del supporto di base rappresentato sempre da una tavola di legno, il nudo legno, inerme ma vivo, che attende solo la mano per vivere nuove forme, sovrapponendo strati di colore, misto a materiali sabbiosi, intervenendo a volte con segni, a volte con simboli, a volte con graffi, come a voler rappresentare un muro raschiato pregno di eventi. Ovviamente il procedimento diventa più lento rispetto agli altri indirizzi dell’arte informale, considerati i tempi di asciugatura dei materiali usati. È necessario precisare che alcune delle mie opere sono frutto di una lunga meditazione, mentre altre sono dettate dall’impulso e dalla passione del momento; per ciò che concerne le prime, cerco di calcolare l’equilibrio compositivo del supporto, valorizzando al massimo le caratteristiche della superficie e interessandomi alla forma da rappresentare , unita al gioco delle tinte, giocando con la materia. Attraverso questo procedimento esploro le potenzialità evocative di quella, libera di per sé, ma pronta ad essere plasmata. Protagonista indiscussa è la materia stessa, in tutta la sua realtà fenomenica. Per ciò che riguarda le opere frutto di una spinta istintuale, esse sono per lo più legate a sensazioni ed emozioni del vivere quotidiano, in una sorta di catarsi interiore: inizialmente si avverte un magnetismo verso verità primordiali, archetipi  sepolti in insondabili profondità, quelle che noi tutti abbiamo ma non sappiamo di possedere, la quotidianità mira a risvegliarle, sollecitandone una rappresentazione immediata, considerato che il maggiore pericolo è quello di disperderle con la consapevolezza:
  “Vedere non è fidarsi delle apparenze, ma insegnare all’occhio a servirsi di quelle armi mentali che formano le apparenze e portano a sapere come le apparenze si fondano e perché ciò avvenga, portando le apparenze a rendere più segreto il segreto dell’uomo, il cui destino è, essendo trovato un perché, di cercare il perché di quel trovato perché….” (G. Ungaretti).
Luogo di lavoro

“Dentro di noi c’è un luogo silenzioso e sacro dove possiamo ritirarci in qualsiasi momento ed essere noi stessi” (H. Hesse).
Il luogo in cui amo esprimermi è un luogo silenzioso, appartato, dove riesco a mettere a nudo la mia anima, a soggiornare a lungo in essa, una sorta di rifugio in cui attingo forza vivificatrice. Mi sono compiaciuta nell’attribuirgli il nome di “caverna”. La “caverna” nella preistoria è il luogo in cui l’uomo ha la possibilità di sperimentare finalmente l’arte, che è sempre una propensione verso il miracolo della sorpresa, di ciò che è insperato e insperabile. La “caverna” è il desiderio di sentirsi liberi, è la verità che vuole distruggere la menzogna.

Le Maschere
Alcuni mie opere ritraggono volti colti nel loro vivere quotidiano, nella loro verità. Le cosiddette “maschere”, che qualcuno indossa nella consapevolezza di trarre in inganno il suo interlocutore, ma che invero generano un immediata azione di “smascheramento”, e un immediato sentimento di repulsione verso queste tipologie caratteriali. Esse, pertanto, sono dominate da una valenza psicologica ben definita, la quale interviene nella forza dell’espressione, assieme ai vari gradi di luminosità e alla forza del colore, creando così un’identificazione cromatica tra il carattere della maschera e l’impatto estetico. Questi volti, in quanto rappresentativi  dei lati più negativi dell’indole umana, non comportano un piegarsi all’estetica: pur rispettando le regole dell’equilibrio compositivo, l’occhio rifugge dall’opera stessa, provandone disgusto e repulsione.
Se di primo acchito potrebbe sembrare che le figure siano di immediata ispirazione ed attuazione, osservandole più attentamente, vi si legge una vera fatica di ricerca, di studio e di lavoro. L’impulso emozionale guida la spinta iniziale, ma in una seconda fase è il cervello che porta a compimento l’opera.


Le Porte

Altre mie opere rappresentano un periodo di passaggio tra due diversi modi di rapportarsi alla realtà: scorrendone alcuni titoli (“La porta del Mondo”, “La porta del Dolore”, “La porta della Rinascita”…), si scorge un attraversare ed un entrare in rapporto con il tutto e sganciarsi come parte di un meccanismo, è trovare il dialogo con il mondo interiore, necessario tanto quanto quello esteriore. A tal proposito mi piace ricordare un’opera di Peter Birkhauser, intitolata “Sulla soglia”, in essa egli appare atterrito dalla sua stessa forza creativa, tenta di tenere chiusa una porta al di là della quale vi è un animale spaventoso, lo stesso di cui egli ha paura, in verità simboleggia la sua vocazione e l’energia che da quella ne segue. In alcune delle  mie “Porte” è inserita una chiave,  indispensabile medium per accedere al “mondo – altro”, visto come dialogo interiore esperito. All’interno di queste dinamiche, le “Porte”sono il tentativo disperato di dialogo con altri uomini: in “Protezione”, non a caso, le “Porte” sono sovrastate dalla mia ombra, che non è sinonimo di oppressione, ma si fa segno di apertura e coscienza dell’urgenza comunicativa.
“Nulla di finito, nemmeno l’intero mondo, può soddisfare l’animo umano che sente il bisogno dell’eterno” (S.A. Kirkiegaard).
Delineare immagini è un modo per svelare la vita e tutte le sue dinamiche. Esse possono riprodurre storie intrise di speranza o di gioia, ma possono rivelare anche ciò che la mente rifiuta di accettare: la consapevolezza della sofferenza e del dolore. È proprio allora che le immagini, i sentimenti, i sogni e le speranze espresse con l’arte, intesa nel senso lato, come arte del racconto, della poesia, del teatro, permettono di dare forma all’inventiva, superando la “Porta” del dolore: cercando in noi stessi e non altrove.


L’ “Albero della Vita”

“Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce t’insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”(B. da Chiaravalle).
Nel corso dei millenni, l’albero ha da sempre suggerito all’umanità un significato simbolico: ponte di passaggio dal fisico allo spirituale e, in questo senso, metaforicamente paragonabile all’uomo, che si fa mediatore anch’esso e luogo d’incontro tra forze del cielo e della terra, da dove attingere l’energia spirituale.   
Il mio ”Albero della Vita”, eseguito su un supporto di legno di notevoli dimensioni, frutto di un lungo periodo di ricerca, raffigura un albero d’oro che si staglia su un muro. Tuttavia, la mia definizione dell’oggetto-albero si discosta da quella attribuitagli dal simbolismo classico: l’opulenza dell’albero, posto in una provocatoria contraddizione con l’asperità del materiale che è dietro di lui (anzi, che inavvertitamente sull’albero incombe), è simbolo della vita eterna, è la speranza di un ritorno alla vita, a voler simboleggiare quanto questa possa eludere la morte. “Oh, come desidero ardentemente crescere, guardo fuori e l’albero dentro di me cresce” (Rainer Maria Rilke).


“La Fuga” e “Il Ritorno”

Un altro tema da me affrontato è stato quello della “Fuga” e del “Ritorno”. La “fuga” è generalmente indotta dalle contraddizioni e dalle nevrastenie della quotidianità, una sorta di dissociazione tra sogno e realtà. Lo scopo della mia “fuga” non è quello di arrivare ad una meta precisa, a me basta il “viaggio”, è una fuga tentata con le mani, in cui sembra che ad inseguirmi sia una chiave, la chiave del tempo. Quando si scappa si prova sempre uno stato di disagio come quando ci si trova di fronte all’entrata di un tunnel di cui non si conosce il percorso, il tunnel rappresenta il mistero e l’avventura della conoscenza. Ma da quel cunicolo nasce prorompente il desiderio di ritornare, da quel silenzio plumbeo s’innalza una voce che ci grida di ritornare in noi stessi, da lì il bisogno del “ritorno”. Quel viaggio è stato necessario, l’unico modo di reagire è stato fuggire, bisogna perdersi per sapersi ritrovare, e il mezzo è il viaggio, inconscio, sognante, delirante, quindi prima l’azione, poi il ritorno, infine l’evoluzione, con una maggiore  consapevolezza di sé, pronta alla lotta contro la quotidianità.

Conclusioni

Giunta al termine di questa breve auto-analisi, vorrei concludere con un pensiero del grande Pablo Picasso: “Tutto ciò che ho fatto è solo il primo passo di un lungo cammino. Si tratta unicamente di un processo preliminare che dovrà svilupparsi molto più tardi. Le mie opere devono essere viste in relazione tra loro, tenendo sempre conto di ciò che ho fatto e di ciò che sto per fare.”.
Francesca Rizzuto




Recensione Taliano Grasso


Non mi intendo di critica d’arte, il mio campo è la letteratura, quindi credo che sarò senz’altro originale, un po’ come Oscar Wilde che diceva:
“Amo parlare di niente, è l’unico argomento di cui so tutto”.
Francesca Rizzuto è artista performer, più ancora che pittrice, come testimonia il suo tirocinio della e sulla materia e sui diversi linguaggi e intendendo, più contestualmente quanto è andato affermandosi dalle avanguardie novecentesche in poi in relazione alle tecniche e alle poetiche in tutti i campi, dal teatro alla scultura alla pittura e, subito dopo, anche ai linguaggi multimediali.
Le innovazioni registratesi legittimano l’esigenza della molteplicità e della versatilità dei materiali e, mentre nel teatro anche la linea, il frammento di luce e di suono, hanno dignità di linguaggio e non più soltanto il corpo e l’attore, e la scena pure di per sé ne ha, nell’arte l’astrazione rinnova e non compromette affatto il realismo, allarga il ventaglio delle nostre percezioni, e di conseguenza della realtà; si supera la “plastica tragica” per un’introspezione più efficace. Si crea una vera e propria situazione di avventura creativa che ricorda bene quanto afferma Georges Braque: “Il quadro è ogni volta un’avventura. Quando mi avvicino ala tela bianca non so mai cosa potrà venir fuori. Questo è il rischio che dobbiamo correre”.
Così il termine tradizionale di pittura non è più in grado di esprimere dovutamente tutte le modalità di percezione e produzione, i diversi canali per altri materiali, le forme che ne derivano dagli spazi reali e immaginari, molto fervidi nell’universo culturale della nostra artista. Nelle belle soluzioni ibridate, portate alla luce, materia e colore assurgono a paradigmi nei quali si declina un controverso mondo interiore, fatto di passaggi oscuri ma imprescindibili, un humus di archetipi e miti che, non so quanto consapevolmente, ma che importa?, conducono a volte a soluzioni mistiche ma chiaramente di derivazione laica, altre volte richiama l’esperienza alchemica. È significativo che lei chiami “caverna”quanto il buon Bonifacio chiama atelier…; che tra i soggetti, nell’esplosione caotica di luci e colori, sia frequente il motivo della porta; dietro ogni porta c’è un universo, e ogni universo sprigiona il suo carico di fascino e di paura, di gioia e di dolore, ma anche di liberazione e di crescita. L’artista è lì che vuol fare i conti con le paure, le angosce; non a caso ad esse, nelle tavole i cui soggetti sono i quadrati, si associa l’immagine a volte dorata della chiave; “Io amo gli uomini che cadono, se non altro perché sono quelli che attraversano”, recita un aforisma di Nietzsche; quindi cade chi nasce, chi vive, chi si trasforma, tutto il resto è stasi, inerzia, non vita. Il ricorso ai pigmenti e alla materia sembra qui voler affidare a un anelito trascendente le risposte, la chiave del mistero di cui lei si fa medium. Sorprendentemente, quando ho osservato la sua arte, ho subito pensato che vi fosse ben poco di casuale e molto più di organico e generato da pulsioni recondite, quindi che l’opera ci voglia indicare sempre un altrove, una sorta di completamento dell’esperienza sensibile e della verità con un mondo di cui siamo in grado, se restiamo immobili, di cogliere solo sfumati contorni e bagliori: come non si può pensare al mito della caverna di Platone?
È una dialettica che si dipana ermeticamente sulla dicotomia di terrestre e celeste, di materiale e spirituale, sulla parte ai sensi percepibile e l’altra impercettibile, ma altrettanto vera, la zona d’ombra, l’altra faccia della luna, quella Lilith originale, matriarcale passionale fertile trasgressiva e protettrice delle donne partorienti e della vita stessa, che la storia degli uomini, non delle donne, ha soffocato per restituirci quell’eterno femminino che tanto bene Shakespeare incarna in un personaggio come Lady Macbeth: la donna demone, che si aggira sugli spalti del suo castello scrutando terrorizzata la sua piccola mano in cui teme di vedere tracce di sangue e che tutti i profumi d’Arabia non basteranno a levigare”.
Due volti, come Giano, il passato e il futuro, così siamo perfettamente in tema con quest’incontri del Giano…
Coerentemente, troviamo i due simboli, ricorrenti, del quadrato del cerchio. Che dire? Mi sembra sorprendente che Francesca non abbia un passato da alchimista! Il quadrato rappresenta la terra anche se superficialmente si può pensare ad essa come al cerchio…ma non è così. Siamo soliti dire “i quattro angoli della terra” ma il cerchio non ha angoli, il quadrato sì; difatti anticamente la Terra si credeva fosse piatta e quadrata, retta su colonne o animali o sul povero Atlante; sotto si spalancava l’abisso…e dalla Genesi apprendiamo dei quattro fiumi che scorrono dall’Eden e nella Gerusalemme celeste, irrigando in perpetuo. Il cerchio è simbolo del cielo, anche un segmento di sfera lo è, pensiamo alla cupola delle basiliche o al catino absidale in cui si rappresentano scene celesti e nel quadrato delle basiliche il testo del mondo. Si fa strada il sospetto che la nostra artista cerchi la quadratura del cerchio!
Il che, semanticamente, teologicamente, non è assurdo e ci fa tornare al passaggio di prima, ovvero quell’aspetto di altrove, metafisico e spirituale, che soltanto può completare il percorso umano e il ricongiungimento alla perfetta agognata unità. Soltanto l’arte può scaldare la materia intorpiditasi delle nostre vite, dei nostri paesaggi anche o soprattutto interiori con quell’afflato mistico che aleggia in questo laboratorio, o atelier o caverna, e che, tra il terrestre dei quadrati il trascendente dei cerchi, tra il ciarlatano e la croce, credo trovi la massima espressione nell’opera dell’ Albero della vita di edenica memoria, ma bisogna andare oltre e lo farò con un verso di Tagore: “Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto”. L’albero, e quest’opera, riassumono perfettamente, dalle radici che sono il principio alle foglie che sono la manifestazione, l’esigenza di attingere all’ombra quanto di slanciarsi verso il sole, il travaglio stesso dell’artista perennemente in viaggio tra il sonno e la veglia.

Rocco Taliano Grasso

1 commento:

  1. L’URLO MUTO
    (Appunti sull’arte di Francesca Rizzuto)

    “L’egida della materia”, un mitico scudo che protegge l’anima dagli strali della facile apparenza, un riparo ricercato ed inseguito al di là della superficie, una soglia mistica aperta sull’abisso, “viaggio-trapasso” attraverso i meandri oscuri e profondi del Mistero. Affondare e fare naufragio nella materia è ritrovare un antico sentiero interrotto e smarrito, è compiere un viaggio interiore per ricercare e coglierne l’intima essenza… in un giuoco alchemico che la trasforma da elemento grezzo ed inerme a frammento di assoluto, brandello di eternità, alito d’infinito.
    “Perché la materia è una forza oscura, ma dotata di molteplici attitudini, che si prestano ad attualizzare altrettante oscure intuizioni.” , dice l’Artista, protesa verso una tensione interiore che subisce la forza di quel “magnetismo verso verità primordiali, archetipi sepolti in insondabili profondità”.
    Questa è una sapienza antica… che nasce da lontano. L’Arte è sortilegio, non mera descrizione ma evocazione. La materia si spoglia delle proprie vesti esteriori e, nuda verità, abbandona il proprio “destino” già segnato, per trasfigurarsi in sensazione ed emozione. Ecco perché manipolare la materia è necessità primordiale. Negli antichi misteri orfici vari oggetti venivano manipolati in un giuoco simbolico e rituale… e la sibilla manipolava visceri di animali… per cavarne il vaticinio. Toccando e rimestando, impastando e scalfendo, componendo e dilaniando si partecipa alla vita vibrante della materia, entrando in comunione con la sua anima… lasciando un’impronta indelebile di quel passaggio… un sigillo impresso che ne marca a fuoco l’anima stessa per l’eternità. Solo manipolando la materia, attraverso un contatto diretto e fisico, si riesce a coglierne la profonda essenza… La materia ha un’anima… dimensione profonda ed autentica… fonte di vibrazioni, sensazioni, turbamento… Questo è il suo linguaggio segreto… che non tutti possono udire. Ma Eraclito “l’Oscuro” ci insegna che “La sibilla con bocca folle dice cose senza riso, ornamento o unguento”. E qui l’artista si fa tramite… cogliendo l’essenza delle cose… al di là dell’effimera apparenza e dei ceppi della funzione ormai consolidata dall’uso quotidiano, banale e comune. Trasfigurazione vera e propria della materia che intona un canto nuovo e mai udito, un “urlo muto” che lancia nell’attimo stesso in cui muore per rigenerarsi, un grido tragico, straziante ed estremo che squarcia i rigidi sacri codici… per andare oltre il silenzio. E’ il mistero di ciò che appare e non appare… o, meglio, di ciò che è e non appare… come nel novilunio. Una maschera di ombra cela una essenza profonda di una materia che ordina e governa maree e umori… follie e germogli… nascite, crescite e transiti.
    Così “ la materia” si fa “elemento e segno”. Nell’opera il mistero si compie nel rituale arcaico della creazione, metamorfosi della fisica in meta-fisica, pronta ad affrontare e vincere la sfida del tempo. Anche il colore evapora dalla sua storia e diviene concretamente e plasticamente materia. In una comunione misterica si fa tutt’uno con essa, evadendo dagli schemi codificati e dagli stilemi facili dell’ovvio, mentre il segno, essenziale e pulito, nel fluido labirinto dell’occhio si fa chiave per penetrare nel profondo. Le porte si aprono e si chiudono in un giuoco di scatole cinesi, dove ogni frammento di specchio è un sogno infranto che riflette la luce dell’intuizione alla continua e disperata ricerca di un linguaggio perduto… E’ uno scendere e salire scale infinte per toccare abissi oscuri ed intimi, unica via per raggiungere, rigenerati e liberi, vette inviolate da cui rimirare il cielo e “ritrovarsi” smarriti tra le stelle.

    Giuseppe M. Maradei

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